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Pagina 1 - Paolo Marchetti: fotografo italiano premiato sulla scena internazionale
Quest'anno abbiamo incrociato per ben due volte il cammino di Paolo Marchetti dapprima in occasione dei Sony World Photography Awards 2012, dove abbiamo potuto ammirare le sue foto tra quelle dei finalisti (secondo posto di categoria per il suo lavoro) e recentemente per la sua vittoria di una delle borse messe a disposizione da Getty Images ai vincitori dei Grants for Editorial Photography 2012. Paolo Marchetti è un fotogiornalista freelance e vive tra Roma e Rio de Janeiro, ha lavorato per oltre dodici anni nel mercato cinematografico ricoprendo ogni ruolo del reparto Operatori, al fianco di alcuni tra i più autorevoli direttori della fotografia italiani e stranieri: in contemporanea ha iniziato i suoi studi fotogiornalistici prestando particolare attenzione alle tematiche antropologiche. Ha raccontato storie lontano dal nostro Paese, realizzando reportage in Brasile, Centro America, Cuba, Haiti, Stati Uniti, Europa dell'est, India, centro Africa, Cina, ma il suo progetto a lungo termine lo sta realizzando nel suo continente, l'Europa, da ormai quattro anni: un progetto sul risveglio del fascismo chiamato "FEVER". Nelle prossime pagine cercheremo di conoscere meglio lui e i suoi progetti. Pagina 2 - Fotografia: una passione fin dall'infanzia
1- Partiamo dagli inizi: raccontaci i tuoi primi passi nel mondo della fotografia. Ricordi ancora la prima foto che hai scattato? Non ricordo esattamente la prima immagine che realizzai tramite il gesto fotografico ma ho impresso nella memoria la tempesta emotiva che mi travolse durante il mio primo contatto con il racconto documentaristico. Accadde nella redazione di una famosa testata giornalistica italiana dove mio padre lavorava mentre all'età di circa dieci anni, io, aspettando che terminasse il turno, trascorrevo il tempo curiosando negli archivi fotografici. Quelle che fatalmente mi affascinarono furono le fotografie dell'omicidio di Lee Harvey Oswald, accusato dell'assassinio Kennedy del 1963. Ricordo come fosse ieri lo stupore dato dal senso di verità contenuto in quelle immagini piuttosto che dal fattore estetico o dall'importanza giornalistica. Ero davvero piccolo e non credo che capissi il valore del documento contenuto in quelle fotografie. Credo di aver fatto la mia prima fotografia da lì a poco e ricordo l'aspetto giocoso del gesto fotografico. Quello che ricordo delle mie prime immagini sono i miei pomeriggi nel cortile del condominio dove vivevo con la mia famiglia. 2- Quando hai deciso che la fotografia sarebbe diventata il tuo lavoro? Come hai cominciato la carriera da professionista? La mia preparazione fotografica risale a quella cinematografica, ambiente in cui ho lavorato per circa tredici anni, e in cui ho coperto ogni ruolo nel reparto Operatori e assecondato l'operato dei direttori della fotografia italiani e stranieri nei circa 40 film a cui ho partecipato. Negli stessi anni portavo avanti il mio hobby della fotografia statica, accompagnandomi sempre e comunque con agili macchinette ovunque io andassi. Credo di poter affermare che l'amore per questo tipo di esperienza e di approccio visivo con il reale fosse sempre più quello che preferivo, un amore che col passare del tempo, ha finito definitivamente di superare il fascino di essere materialmente un tassello importante nella realizzazione estetica dei film al cinema. La fotografia ha sempre rappresentato il pretesto per guardarmi intorno ed osservare altro, ma senza estrarmi mai dalla realtà, un approccio differente alla socialità che non comportava però rinunce per quanto riguarda il mio coinvolgimento. Insomma è quasi uno strumento terapeutico per il mio carattere timido e giocoso allo stesso tempo. La scelta di lasciare un mestiere così affascinante come il cinema per affrontare l'avventura fotogiornalistica, mi è balenata chiaramente in testa quando mi accorsi che lavorando sui set pensavo molto più alle foto che al prossimo film a cui partecipare e che tornare a casa per sfogliare la mia collezione di libri era la cosa che preferivo. Cinque anni fa feci il salto e da subito capii di voler tentare una strada rigorosa con la mia scelta, mi misi a studiare la disciplina del racconto per immagini soffermandomi da subito su l'aspetto etico legato al fotogiornalismo. Inoltre la paura di lasciare un mestiere per un altro mi mise una gran pressione addosso, condizione questa, che si rivelò davvero utile perché mi impegnassi oltre modo. Pagina 3 - Fotografare per capire la realtà
3- I temi politici e antropologici sono un leitmotiv dei tuoi lavori: lo sono stati fin da subito o rappresentano un'evoluzione della tua ricerca fotografica? Quali sono le pietre miliari della tua carriera? Faccio fotografie perché voglio capire, cammino per chilometri durante i miei viaggi e mi spendo emotivamente per comprendere le storie che scelgo di raccontare. Per me non c'è viaggio che valga la pena di fare se non a queste due condizioni. Non ho mai amato fare foto tanto per farle e altrettanto, non ho mai viaggiato se non con lo scopo di imparare da tutto quello che c'è là fuori. Dunque il primo obiettivo è sempre approfondire l'approccio antropologico del gesto fotografico e tentare analisi capaci di affrontare le tematiche socio-politiche della società. Credo che "FEVER - THE AWAKENING OF EUROPEAN FASCISM" rappresenti senz'altro il primo capitolo importante da quando ho deciso che la fotografia divenisse il mio linguaggio espressivo. Un altro progetto che sto tutt'ora affrontando, un approfondimento sulla condizione della società Haitiana. In questo mio lavoro a lungo termine sto tentando di restituire l'anima di un popolo con una storia davvero difficile. Ho raccontato fino ad ora l'aspetto religioso, entrando nella ritualità del Voodoo, e ho raccontato il fenomeno delle gang che affligge le zone più povere dell'isola. Questo secondo capitolo, chiamato "CHIMERE - Gangs in Port-au-Prince", rappresenta un traguardo importante per quanto riguarda le mie ricerche in quanto, non esistono approfondimenti fotografici precedenti al mio su questo argomento. 4- Ci siamo conosciuti grazie ai premi che hai vinto: dopo un primo contatto ai Sony World Photography Awards ora il riconoscimento ai Grants for Editorial Photography 2012 di Getty Images. Partiamo dal lavoro premiato a Londra, svelaci i retroscena. In quell'occasione ho avuto la fortuna di ricevere un bellissimo riconoscimento nella sezione ritratti per un mio reportage sui componenti delle gang in Nicaragua. Realizzai quel progetto all'interno di alcune carceri minorili e l'esperienza fu profonda. Ottenni l'ingresso all'interno degli istituti penitenziari grazie alla collaborazione di una ONG italiana dal nome "Terre des Hommes" e riuscii, grazie al loro supporto, a realizzare un documento fotografico aderendo alla difficilissima tradizione ritrattistica. Anche in questa occasione feci della relazione e quindi della fiducia lo strumento necessario per restituire ritratti capaci di raccontare.
Trascorsi diversi giorni nelle carceri Nicaraguensi, in principio senza macchina fotografica e per poche ore al mattino, e lo feci per permettere ai detenuti minorenni di visualizzarmi, sì come un ospite osservatore ma non come un estraneo con l'intento di prendere qualcosa per portarselo via. Il tentativo fu quello di rendere il gesto fotografico naturale e senza che potesse farli percepire come animali in gabbia. Dunque realizzai quelle foto soltanto negli ultimi giorni trascorsi in ciascuna delle carceri. Il tempo trascorso senza la mia macchina fotografica rappresenta la chiave per accorciare le distanze e procurarmi la possibilità di dimostrare il rispetto che gli dovevo. Pagina 4 - Una sola priorità: il rispetto
'Fever' nasce nel 2009 ed è il primo grande capitolo di una ricerca più ampia che sto affrontando negli ultimi anni. Sto tentando di approfondire un sentimento primordiale che sta caratterizzando sempre più i nostri tempi: la rabbia. Ho cominciato ad interrogarmi sui fattori scatenanti e sui molteplici strati emotivi in cui può esprimersi ed ho da subito intuito che il primo passo necessario sarebbe stato quello di farmi investire emotivamente, mediante l'esperienza diretta. Anche in questo caso ho messo in primo piano un approccio basato sulla fiducia ed ho cominciato il mio racconto partendo dalla frequentazione e dal confronto. La macchina fotografica spaventa moltissimo e in un'epoca in cui apparire è una questione così delicata, noi fotografi dobbiamo utilizzare i nostri strumenti con una sola priorità, il rispetto. Questo è dato da un codice comportamentale imprescindibile, necessario ed utile per poter realizzare immagini con un'autenticità propria. Ancora oggi provo riverenza di fronte alla responsabilità del mio desiderio, quello di voler fare della mia fotografia uno strumento di condivisione della vita degli altri, ancora oggi provo soggezione e mi interrogo su quanto sia presuntuoso quello che chiamiamo il coraggio del fotoreporter.
Ho cominciato a scattare fotografie soltanto dopo una frequentazione di circa due mesi, cosa che mi ha permesso di stringere delle relazioni basate sulla fiducia ed ottenere quindi un ruolo tutt'altro che ostile all'interno della scena fascista. Ho iniziato dalla mia città, espandendo col passare del tempo la mia rete di contatti, tali perché io riuscissi ad accedere alle molteplici circostanze in tutta Italia. Continuerò ad esplorare questo particolare habitat con la medesima rete di contatti sperando di riuscire a confezionare un documento profondo. Il Grant dell'agenzia Getty è generoso e mi permetterà di affrontare anche logisticamente l'impegno preso. Pagina 5 - Non serve il permesso di fotografare se crei una relazione con il soggetto
6- Nelle ricerche antropologiche, ma soprattutto in quelle a tema politico ci si gioca in prima persona: come vivi questo rapporto tra la tua vita e le realtà che incontri e cerchi di raccontare con le immagini? La fotografia nutre l'irreversibile ambizione di vivermi il mondo personalmente, per conoscerlo e per conoscermi e tornando ogni volta a casa con delle testimonianze fotografiche che rappresentano lo scambio umano che ho cercato sulla mia strada. L'uomo è al centro delle mie ricerche, e ciò che accomuna le storie che racconto è il mio desiderio di spingermi sui bordi dell'esistenza umana e cercarne una "traducibilità" visiva, che sia emozionale ma soprattutto fedele alla realtà. Non c'è storia che mi interessi se non quelle col presupposto di scendere dalle mie strutture mentali e le mie consapevolezze, fare fotografia mi ha maturato molto. Prima di tutto questo però, c'è la consapevolezza che fare dell'informazione è una pretesa altissima e che rappresenta una responsabilità che non può impastarsi con le smanie personali. Cerco dunque di investigare nelle storie e restituirle con la massima umiltà e con la consapevolezza che il desiderio di perdermi nel mondo è la diretta conseguenza di quello che faccio. Racconto la vita degli altri e questo, in nessun modo può essere il passaggio che cerco per arrivare dove voglio. 7- Come ti avvicini a realtà molto diverse dalla tua, quali strategie adotti per riuscire ad entrare in relazione con i tuoi soggetti? Questo è il mio argomento preferito in merito a tutto questo e come ho tentato di spiegare, rappresenta il mio primo scopo. La mia chiave è scendere dalle mie convinzioni e destrutturare ogni mio pregiudizio dato dalla paura e dalla poca conoscenza, aprire il cuore e fidarsi soltanto di questo. Certamente ogni circostanza richiede un codice comportamentale differente, ma credo di aver ormai sviluppato una capacità inconscia di intuire da subito il linguaggio e i dettagli necessari per accedere al dialogo con il prossimo. Su questo argomento sono davvero centrali lo studio del linguaggio del corpo e le diverse tecniche di avvicinamento, ma tutto ciò può soltanto evaporare nel nulla se il presupposto non è l'amore per lo scopo che ci prefiggiamo. 8- Cosa c'è nella tua borsa quando sei sul campo? Quanto conta l'attrezzatura fotografica? Nei tredici anni dell'esperienza cinematografica ho avuto, come una delle mie mansioni, la responsabilità delle macchine cinematografiche e di tutto ciò che ne consegue, lascio quindi immaginare quale maniacale attenzione pongo sull'argomento. Detto ciò la prima regola che seguo è quella della semplicità e della leggerezza. Essere agili e meno vistosi possibile fa parte del linguaggio corporeo di cui parlavo in precedenza. Porto con me un buon corpo macchina e un'ottica, massimo due, le consuete schede ed un flash radiocomandato. Nell'alloggio tengo molto altro, ma è tutto materiale atto ad entrare in gioco in caso di guasti o situazioni fotografiche particolari. L'attrezzatura conta, ma come tutti sappiamo è solo una piccolissima parte. GALLERY: Paolo Marchetti: fotografia alle radici della rabbia (per vedere la gallery, guardare la versione completa dell'articolo) |
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